A norma dell’art. 2103 Codice Civile ”Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”. È orientamento granitico in giurisprudenza che lo svolgimento delle mansioni superiori per il periodo previsto dal contratto collettivo comporta il diritto del lavoratore all’attribuzione del relativo livello di inquadramento e all’erogazione del trattamento retributivo spettante in base al superiore inquadramento che è stato definitivamente raggiunto. (Cass. 20/12/2012 n. 23649, Pres. Stile Rel. Tria, in Lav. nella giur. 2013, 310) Tuttavia, condizione essenziale ai fini dell’accesso alla qualifica superiore è che sia dimostrato che l’assegnazione alle più elevate mansioni è stata piena, nel senso che abbia comportato l’assunzione della responsabilità diretta e l’esercizio dell’autonomia e della iniziativa proprie della corrispondente qualifica rivendicata, coerentemente con le mansioni contrattualmente previste in via esemplificativa nelle declaratorie dei singoli inquadramenti, cui vanno poi raffrontate le funzioni in concreto espletate dal lavoratore interessato. (Trib. Milano 15/2/2013, Giud. Colosimo, in Lav. nella giur. 2013, 622). In altri termini il lavoratore che agisca in giudizio per far valere diritti attinenti allo svolgimento di mansioni superiori ha l’onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di aver concretamente svolto (vedi anche, Tribunale di Firenze, 3.10.2017, Lav. Giur., 2018, 210; Tribunale Roma, Sez. Lav., 27.6.2017 n.6263, Lav. Giur., 2017, 1033). La Suprema Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che nel procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da un accertamento di natura tri-fasica, cioè (1) dall’accertamento in fatto dell’attività lavorativa in concreto svolta, (2) dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e (3) dal raffronto dei risultati di tali due indagini: «la relativa valutazione, deve essere effettuata accertando i contenuti effettivi delle mansioni esercitate confrontandoli con quelli delle declaratorie delle categorie e dei profili professionali introdotte dalla contrattazione collettiva succedutasi nel tempo» (Cass., 8 aprile 2011, n.8084 e Cass. 27.11.2001 n.14806). Ne discende che, nei casi in cui il lavoratore non descriva e provi le mansioni effettivamente svolte, al giudice è precluso il giudizio a cui è chiamato, non potendo operare il raffronto tra le mansioni in concreto svolte, con quelle descritte nel contratto collettivo di categoria in relazione all’inquadramento professionale. Con espresso riferimento al pubblico impiego agli oneri di allegazione si affiancava la necessità di allegare anche un atto formale di attribuzione dell’incarico; di talchè il lavoratore pubblico esercente di fatto mansioni superiori risultava gravato di un onere di difficile assolvimento. Tuttavia, da ultimo, Corte di Cassazione Sezione Lavoro, con la sentenza n. 14808/2020, ha affrontato la delicata questione delle mansioni superiori «di fatto». In un giudizio contro la sentenza della Corte d'appello di Campobasso che aveva negato il riconoscimento ai fini economici delle mansioni superiori svolte alle dipendenze di un'azienda sanitaria, in assenza di un atto formale di attribuzione, la Cassazione, ribaltando il giudizio, ha fornito importanti indicazioni circa l'applicazione di questo istituto previsto dall'articolo 52 del Dlgs 165/2001. Per la Cassazione (richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali), invece, questo requisito non è necessario per ottenere, in termini retributivi, il differenziale economico fra la qualifica di inquadramento e quella (superiore) attinente alle mansioni di fatto svolte. Parzialmente diversa è la valutazione dell’onere della prova per il pagamento di differenze retributive. Sul punto, infatti, occorre operare una distinzione fra le diverse voci della retribuzione, in modo da meglio comprendere il differente onere probatorio incombente sulle parti. In primis vanno correttamente inquadrati gli elementi ordinari della retribuzione, che sono quelli afferenti alla retribuzione mensile, alle mensilità supplementari, al trattamento di fine rapporto e alle ferie non retribuite. Rispetto a tali voci vige il principio secondo cui il lavoratore che ne lamenti la mancanza o la parzialità ha l’onere di provare la reale sussistenza del rapporto di lavoro, mentre spetta al datore di lavoro fornire la prova di aver effettivamente corrisposto la retribuzione relativa a tali voci. Per ciò che concerne, invece, le voci straordinarie, ovvero, le ferie, le festività, lavoro straordinario e i permessi non goduti, il lavoratore, dovrà provare l’esistenza del rapporto di lavoro, la sua natura e durata, la sua articolazione oraria, le mansioni svolte, ossia i “fatti” da cui origina il diritto alla corresponsione di ogni singola voce richiesta e, per quanto riguarda il lavoro straordinario, il relativo onere impone di dimostrare, concretamente e analiticamente, di aver effettivamente lavorato oltre il normale orario.