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DIRITTO DEL LAVORO – MANSIONI SUPERIORI E DIFFERENZE RETRIBUTIVE.

2021-03-03 17:12

Valentina Maria Siclari

Diritto Civile,

DIRITTO DEL LAVORO – MANSIONI SUPERIORI E DIFFERENZE RETRIBUTIVE.

A norma dell’art. 2103 Codice


Civile Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore


ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione


diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non


abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo


il periodo fissato dai contratti collettivi, o, in mancanza, dopo sei mesi


continuativi”.


È orientamento granitico in


giurisprudenza che lo svolgimento delle mansioni superiori per il periodo


previsto dal contratto collettivo comporta il diritto del lavoratore


all’attribuzione del relativo livello di inquadramento e all’erogazione del


trattamento retributivo spettante in base al superiore inquadramento che è


stato definitivamente raggiunto. (Cass. 20/12/2012 n. 23649, Pres. Stile Rel.


Tria, in Lav. nella giur. 2013, 310)


Tuttavia, condizione essenziale


ai fini dell’accesso alla qualifica superiore è che sia dimostrato che


l’assegnazione alle più elevate mansioni è stata piena, nel senso che abbia


comportato l’assunzione della responsabilità diretta e l’esercizio


dell’autonomia e della iniziativa proprie della corrispondente qualifica


rivendicata, coerentemente con le mansioni contrattualmente previste in via


esemplificativa nelle declaratorie dei singoli inquadramenti, cui vanno poi


raffrontate le funzioni in concreto espletate dal lavoratore interessato.


(Trib. Milano 15/2/2013, Giud. Colosimo, in Lav. nella giur. 2013, 622).


In altri termini il lavoratore


che agisca in giudizio per far valere diritti attinenti allo svolgimento di


mansioni superiori ha l’onere di allegare e di provare gli elementi posti a


base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare quali siano i profili


caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli


concernenti le mansioni che egli deduce di aver concretamente svolto (vedi


anche, Tribunale di Firenze, 3.10.2017, Lav. Giur., 2018, 210; Tribunale Roma,


Sez. Lav., 27.6.2017 n.6263, Lav. Giur., 2017, 1033).


La Suprema Corte, infatti, ha


ripetutamente affermato che nel procedimento logico giuridico diretto alla


determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non si può


prescindere da un accertamento di natura tri-fasica, cioè (1) dall’accertamento


in fatto dell’attività lavorativa in concreto svolta, (2) dalla individuazione


delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e (3)


dal raffronto dei risultati di tali due indagini: «la relativa valutazione,


deve essere effettuata accertando i contenuti effettivi delle mansioni


esercitate confrontandoli con quelli delle declaratorie delle categorie e dei


profili professionali introdotte dalla contrattazione collettiva succedutasi


nel tempo» (Cass., 8 aprile 2011, n.8084 e Cass. 27.11.2001 n.14806).


Ne discende che, nei casi in cui


il lavoratore non descriva e provi le mansioni effettivamente svolte, al


giudice è precluso il giudizio a cui è chiamato, non potendo operare il


raffronto tra le mansioni in concreto svolte, con quelle descritte nel


contratto collettivo di categoria in relazione all’inquadramento professionale.


Con espresso riferimento al


pubblico impiego agli oneri di allegazione si affiancava la necessità di


allegare anche un atto formale di attribuzione dell’incarico; di talchè il


lavoratore pubblico esercente di fatto mansioni superiori risultava gravato di


un onere di difficile assolvimento.


Tuttavia, da ultimo, Corte di Cassazione


Sezione Lavoro, con la sentenza n. 14808/2020, ha affrontato la delicata


questione delle mansioni superiori «di fatto». In un giudizio contro la


sentenza della Corte d'appello di Campobasso che aveva negato il riconoscimento


ai fini economici delle mansioni superiori svolte alle dipendenze di un'azienda


sanitaria, in assenza di un atto formale di attribuzione, la Cassazione,


ribaltando il giudizio, ha fornito importanti indicazioni circa l'applicazione


di questo istituto previsto dall'articolo 52 del Dlgs 165/2001.


Per la Cassazione (richiamando


numerosi precedenti giurisprudenziali), invece, questo requisito non è


necessario per ottenere, in termini retributivi, il differenziale economico fra


la qualifica di inquadramento e quella (superiore) attinente alle mansioni di


fatto svolte.


 


Parzialmente diversa è la


valutazione dell’onere della prova per il pagamento di differenze retributive.


Sul punto, infatti, occorre


operare una distinzione fra le diverse voci della retribuzione, in modo da


meglio comprendere il differente onere probatorio incombente sulle parti.


In primis vanno correttamente


inquadrati gli elementi ordinari della retribuzione, che sono quelli afferenti


alla retribuzione mensile, alle mensilità supplementari, al trattamento di fine


rapporto e alle ferie non retribuite.


Rispetto a tali voci vige il


principio secondo cui il lavoratore che ne lamenti la mancanza o la parzialità


ha l’onere di provare la reale sussistenza del rapporto di lavoro, mentre


spetta al datore di lavoro fornire la prova di aver effettivamente corrisposto


la retribuzione relativa a tali voci.


Per ciò che concerne, invece, le


voci straordinarie, ovvero, le ferie, le festività, lavoro straordinario e i


permessi non goduti, il lavoratore, dovrà  provare l’esistenza del rapporto di lavoro, la


sua natura e durata, la sua articolazione oraria, le mansioni svolte, ossia i


“fatti” da cui origina il diritto alla corresponsione di ogni singola voce


richiesta e, per quanto riguarda il lavoro straordinario, il relativo onere


impone di dimostrare, concretamente e analiticamente, di aver effettivamente


lavorato oltre il normale orario.


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